Testamentum Porcelli
TESTAMENTUM PORCELLI (Il testamento del Maiale) 28 Maggio 2015
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Si tratta di un testo tratto da un vasto repertorio a corredo del “NOBILE BANCHETTO DA LO MEDIEVAL COSTUME”, evento organizzato da Università Terza Età Città di Gubbio il 28/05/2015 presso il Ristorante Castello di Cortevecchio.
Si riferisce ad una tradizione che ancora oggi, nel periodo compreso tra dicembre e febbraio, si rinnova nella nostra campagna eugubina, quella di “fare (cioè conciare), il maiale”, l’animale che per gusti, sapori, nobiltà e versatilità, meglio rappresenta lo stretto e continuo legame fra il passato remoto ed i tempi moderni.
E’ uno scritto attestato fin dalla tarda antichità, poi tramandato nei manoscritti per tutto il Medioevo e oltre, trasformandosi in un quello che oggi potremmo definire un “best seller”.
San Gerolamo, padre della Chiesa vissuto fra il IV e il V sec., nel suo Proemium su Isaia, lamentava il fatto che il “Testamento del Porcello” fosse usato nelle scuole dai maestri, così come altri testi definiti “Milesiae Fabellae” (1) e venisse recitato dai fanciulli a mo’ di filastrocca, suscitando non poche risate.
La breve scrittura latina, scherzosamente, si attribuisce al maialino Marco Grunnius Corocotta (2) che, conscio di essere arrivato al momento del sacrificio, desidera far redigere un proprio testamento nel quale elenca le proprie parti e la loro destinazione, evidenziando le sue molteplici benemerenze verso l’umanità. Continua a leggere
È noto il detto secondo il quale del maiale non si butta nulla. Già Cicerone nel suo "De natura deorum" sottolinea che nessun animale è più fecondo e utile del porco nel sostentamento degli uomini. Giulio Cesare Croce, alla fine del 1500, enumera invece tutte le virtù dell'animale, dal cui corpo si ricavano «cose mangiative e cose medicinali» ed anche palloni per il gioco del calcio.
Ecco, dunque, il “Testamentum Porcelli”, di cui noi in questa sede presentiamo un adattamento tra i molteplici esistenti e cioè l’ ampia versione seicentesca dell’ agronomo bolognese Vincenzo Tanara.
“Afferrato dai servi il sedicesimo giorno prima delle calende Lucernine (di Candelora) (3), sotto il consolato dei consoli Tegame e Speziato, quando abbondano le verze, e avvedutosi, certo venerabil Porco, che dal protosguattero Zighettone doveva esser macellato, gli addimandò un hora di tempo per poter disporre delle sue facoltà, così comparve il notaro di Svigo, il quale rogò l’ultima volontà di quello.
> Prima lascio il mio sì, da una caterva di golosi con varia cuocitura nel loro ventre seppellito.
Lascio a Priapo (Dio della fecondità e degli orti) il mio grugno, col quale possa cavare i tartufi dal suo horto.
Lascio a’ librari e cartari i miei maggiori denti, da poter con comodità piegare e pulire le carte.
Lascio a’ dilettissimi Hebrei, dai quali mai ha avuto offesa alcuna, le setole della mia schiena, da poter con quelle rappezzar le scarpe e far l’arte del calzolaio.
Lascio a’ fanciulli la mia vescica da giocar.
Lascio alle donne il mio latte, a loro proficuo e sano.
Lascio la mia pelle a’ mondatori e mugnai, per far recipienti da acconciar i grani.
Lascio la metà delle mie cotiche a’ scultori, per far colla di stucco, e l’altra metà a quelli che fabbricano il sapone.
Lascio il mio sebo a’ candelottari, per mescolarlo a metà col bovino e caprino e far ottime candele, con le quali li virtuosi possono alla quiete della notte studiare.
Lascio la metà della mia songia a’ carrozzieri, bifolchi e carrettieri, e l’altra metà a’ garzolari per conciare la canapa.
Lascio le mie ossa ai giocatori, per far dadi da giocare.
Lascio a’ rustici, miei nutritori, il fiele per poter senza spesa cavar le spine dal loro corpo, quando scalzi e nudi nel lavorar la terra gli fossero entrati nella pelle, e per poter senza spesa, in luogo di lavativo, l’indurato corpo irritare.
Lascio agli alchimisti la mia coda, acciò conoscano che il guadagno che son per fare con quell’arte è simile a quello che io faccio col dimenar tutto il giorno la detta coda.
Lascio agli hortolani le mie unghie, da ingrassar terreno per piantar carote.
A tutti gli altri, lardi, prosciutti, spalle, ventresche, barbaglie, salami, mortadelle, salcizzutti, salcizze e altre mie preparationi.
Carissimi miei estimatori e preparatori, chiedo che con il mio corpo vi comportiate bene e che lo condiate di buoni condimenti, di mandorle, pepe e miele in modo che il nome mio sia lodato in eterno. E ordinate al mio padrone e a mio cugino che sono stati presenti al testamento, di firmarlo.
E voglio che mi sia fatto un monumento con su scritto in lettere d'oro: "Il maiale Marco Grugno Corocotta visse 999 anni e mezzo e, se fosse campato ancora sei mesi, sarebbe arrivato a mille anni.>"
(1) La Fabula milesia nasce nel II secolo a.C. in Grecia; si tratta di brevi racconti realistici e divertenti a sfondo grottesco, satirico o erotico e avventuroso narrati in prima persona, aneddoti generalmente comici, a volte licenziosi, con avventure picaresche e parole tratte dal linguaggio volgare.
(2) È possibile che il termine Corocotta ricordasse la frase corium coctum, cuoio cotto, e allora si potrebbe intendere come "Pellaccia" visto che il cuoio bollito si indurisce notevolmente; è possibile che si alluda anche alla cotenna.
(3) Candelora, nel testo latino LUCERNINAS. Era il giorno di Saturno e dovrebbe indicare il "giorno o festa della lucerne" che si ipotizza sia la festa pagana poi divenuta la “Candelora” al tempo di Giustiniano e fissata al 2 febbraio. Sedici giorni prima, dunque, fanno il 17 gennaio che corrisponde bene all'epoca di macellazione dei maiali e alla presenza di "cymae" (propriamente le cime di rapa, ma anche verze, broccoli)
La nostra Socia Madonna Vera dei Angeletti legge il "Testamentum Porcelli" durante la performance che accompagna il "Nobile Banchetto da lo medieval costume" al Ristorante Cortrvecchio di Nogna.
TESTO ORIGINALE E TRADUZIONE
(La traduzione non è facile perché non sempre si riesce a comprendere il gioco di parole. Ma se gli studenti di San Gerolamo ridevano tanto, vuol dire che ogni parola richiamava loro alla mente cose spiritose.)
TESTAMENTUM PORCELLI
IL TESTAMENTO DEL MAIALE
Incipit testamentum porcelli.
M. Grunnius Corocotta porcellus testamentum fecit. Quoniam manu mea scribere non potui, scribendum dictavi.
Inizia il testamento del maiale
Il sottoscritto M. Grugno Corocotta , maiale, ha fatto testamento. E non potendolo scrivere di mano sua, lo ha dettato affinché venisse scritto.
Magirus cocus dixit: "veni huc, eversor domi, solivertiator, fugitive porcelle, et hodie tibi dirimo vitam".
Il cuoco Cuciniere mi disse "vieni qua, porco che metti sottosopra tutta la casa, girovago e sempre fuggiasco, oggi porrò fine alla tua vita".
Corocotta porcellus dixit: "si qua feci, si qua peccavi, si qua vascella pedibus meis confregi, rogo, domine coce, vitam peto, concede roganti". Continua a leggere
E il maiale Corocotta disse "se ho fatto qualche cosa di male, se ho peccato, so ho rotto dei vasi con i miei piedi, o signor cuoco, ti chiedo di avere salva la vita, fai questa grazia a chi ti prega.
Magirus cocus dixit: "transi, puer, affer mihi de cocina cultrum, ut hunc porcellum faciam cruentum".
E il Cuciniere disse "vai garzone e portami un coltello dalla cucina per scannare questo maiale".
Porcellus comprehenditur a famulis, ductus sub die XVI Kal. Lucerninas, ubi abundant cymae, Clibanato et Piperato consulibus. Et ut vidit se moriturum esse, horae spatium petiit et cocum rogavit, ut testamentum facere posset.
E il maiale viene afferrato dai servi il sedicesimo giorno delle calende di Candelora, sotto il consolato dei consoli Tegame e Speziato (Clibanatus tradotto in ‘il fritto’ e Piperatus tradotto in ‘il pepato’) quando abbondano le verze. E quando egli vide che doveva ormai morire, implorò un'ora di tempo e chiese al cuoco di poter fare testamento.
Clamavit ad se suos parentes, ut de cibariis suis aliquid dimitteret eis. Qui ait:
E così chiamò a sé i suoi parenti per poter lasciar loro le sue cibarie. E così disse:
""Patri meo Verrino Lardino do lego dari glandis modios XXX, et matri meae Veturinae scrofae do lego dari Laconicae siliginis modios XL, et sorori meae Quirinae, in cuius votum interesse non potui, do lego dari hordei modios XXX.
"A mio padre Verro de' Lardi do e lego che siano dati trenta moggi di ghiande e a mia madre Vetusta Troia do e lego che siano dati quaranta moggi di segale della Laconia e a mia sorella Grugnetta, alle cui nozze non potei esser presente, do e lego che siano dati trenta moggi di orzo.
Et de meis visceribus dabo donabo sutoribus saetas, rixoribus capitinas, surdis auriculas, causidicis et verbosis linguam, bubulariis intestina, isiciariis femora, mulieribus lumbulos, pueris vesicam, puellis caudam, cinaedis musculos, cursoribus et venatoribus talos, latronibus ungulas. et nec nominando coco legato dimitto popiam et pistillum, quae mecum attuleram: de Thebeste usque ad Tergeste liget sibi collum de reste.
Delle mia interiora do e donerò ai calzolai le setole, ai litigiosi le testine, ai sordi le orecchie, a chi fa continuamente cause e parla troppo la lingua, ai bifolchi le budella, ai salsicciai i femori, alle donne i lombi, ai bambini la vescica, alle ragazze la coda, ai finocchi i musculi, ai corridori ed ai cacciatori i talloni, ai ladri le unghie ed infine al qui nominato cuoco lascio in legato mortaio e pestello che mi ero portato: da Tebe fino Trieste ci si leghi il collo usandolo come laccio.
Et volo mihi fieri monumentum ex litteris aureis scriptum: "M. Grunnius Corocotta porcellus vixit annis DCCCC . XC . VIIII . S . quod si semis vixisset, mille annos implesset.
E voglio che mi sia fatto un monumento con su scritto in lettere d'oro: "Il maiale M. Grugno Corocotta visse 999 anni e mezzo e, se fosse campato ancora sei mesi, sarebbe arrivato a mille anni".
Optimi amatores mei vel consules vitae, rogo vos ut cum corpore meo bene faciatis, bene condiatis de bonis condimentis nuclei, piperis et mellis, ut nomen meum in sempiternum nominetur. Mei domini vel consobrini mei, qui testamento meo interfuistis, iubete signari"".
Carissimi miei estimatori e preparatori, chiedo che con il mio corpo vi comportiate bene e che lo condiate di buoni condimenti, di mandorle, pepe e miele in modo che il nome mio sia lodato in eterno. E ordinate al mio padrone e a mio cugino che sono stati presenti al testamento, di firmarlo.""
Lardio signavit.
Ofellicus signavit.
Cyminatus signavit.
Lucanicus signavit.
Tergillus signavit.
Celsinus signavit.
Nuptialicus signavit.
Firmato da Lardone.
Firmato da Bisteccone.
Firmato da Comino.
Firmato da Salsiccio.
Firmato da Coppa.
Firmato da Capocollo.
Firmato da Prosciutto.
Explicit testamentum porcelli sub die XVI Kal. Lucerninas Clibanato et Piperato consulibus feliciter.
Qui finisce in tutta regola il testamento del maiale redatto il giorno 16° delle calende di Candelora, consoli Tegame e Speziato.
Il nostro "SCALCO"
ha servito "LO SECONDO SERVIZIO DE CUCINA" con:
Lo Cormary francesco, ovvero lo maialino da latte arrosto co’ lo finocchio selvatico, lo rosmarino et lo ginepro, il tutto accompagnato dagli "INTERMEZZI"che sono
La Bagiana de fave co’ la cipolla
Le Bietole et bona pancetta
La Verdura mista de lo campo cotta
LO SCALCO
“Scalco” è un termine medioevale che deriva dal latino scalcus e significa servitore.
In età rinascimentale e barocca lo scalco era, più propriamente, il soprintendente alle cucine principesche e aristocratiche: spettava a lui selezionare e dirigere i cuochi e la servitù, provvedere alla mensa quotidiana del suo signore, con cui teneva personalmente i rapporti, rifornirne la dispensa, organizzare i banchetti nei minimi dettagli.
Lo scalco non va confuso né con il capocuoco, come molti credono, né con il trinciante, cioè con colui che disossava e affettava le carni cucinate.
Domenico Romoli, detto il Panunto, scalco tra i più noti dell’epoca, nella sua opera “La singolar dottrina” (1560) descrive così la mansione dello scalco: “figura primaria appartenente ad una condizione sociale abbastanza elevata, tale da consentirgli di conoscere le cose di cucina non meno che la vita di Corte o gli scrittori classici e moderni”.
Lo Scalco non era quindi un semplice servitore, anche se di rango elevato, ma un cortigiano: un gentiluomo per nascita o, più raramente, per meriti culinari. Per questo, a differenza dei cuochi, poteva vestire in modo ricercato, portare barba, baffi e parrucca. Continua a leggere
Oltre ad avere autorità sul personale di tavola e cucina, lo scalco maggiore poteva spesso utilizzare i soldi del padrone per acquistare gli approvvigionamenti, disponendo al proposito di ingenti somme.
Nelle sue competenze c’era la preparazione delle complesse liste dei pranzi, tenendo conto del gusto di ciascuno degli invitati, del cerimoniale, della stagione, delle derrate alimentari disponibili e delle ricorrenze religiose. Egli decideva il contenuto del menù da presentare sulla mensa; ne era il responsabile e sovrintendeva ad ogni operazione che riguardasse i servizi; si accertava per tempo delle necessità e i bisogni della Corte.
Insomma lo scalco incarnava non solamente un ruolo di prestigio, ma addirittura diveniva in un certo senso la “mente del Principe” quando questi si approssima alla tavola.
Cristoforo Messi, meglio noto come Messisbugo, scalco ed amministratore presso la corte estense di primo Cinquecento, fu uno degli uomini che meglio seppe incarnare il ruolo dallo scalco maggiore, titolo spesso attribuito, insieme a funzioni rappresentative ed organizzative, quale premio di avanzamento sociale ai funzionari di Corte che si erano particolarmente distinti nello svolgimento delle proprie mansioni.
Altro scalco arcinoto, forse il più conosciuto, fu Antonio Latini, tra l’altro uno dei pochi nati con umili origini e capace solo per merito – e giuste frequentazioni – di elevarsi al rango di scalco al soli 28 anni. Prestò servizio in molte corti italiane fra cui quella del Cardinale Antonio Barberini.
Concluse degnamente la carriera a Napoli, alle dipendenze del reggente Esteban Carillo Salsedo. Qui crebbe la sua fama; qui fu insignito del titolo di cavaliere dello Speron d’oro; qui, negli ultimi anni della sua vita, compilò “Lo scalco alla moderna, o vero l’arte di ben disporre i conviti”, che diede alle stampe in due volumi tra il 1692 e il 1694.
Nel volume sono descritte alcune delle principali ricette che hanno reso “cult” la cucina italiana attraverso i secoli.