"Alimenti e alimentazione nel territorio eugubino dal Medioevo all'Ottocento." Documenti dall'Archivio privato del Prof Giuseppe Maria Nardelli
Lezione del Dott. Giuseppe Marino Nardelli
24 Gennaio 2024
Mercoledì 24 gennaio 2024 il Dott. Giuseppe Marino Nardelli ha tenuto nella sala ex Refettorio della Biblioteca Sperelliana di Gubbio la relazione sul tema “Alimenti e alimentazione del territorio eugubino dal Medioevo all’Ottocento” a partire dai Documenti dell’Archivio Privato del Prof. Giuseppe Maria Nardelli.
L’interessante lavoro ricade nell’ambito del Progetto di Studio dedicato a divulgare gli studi del valente studioso locale Prof. Giuseppe Maria Nardelli, scomparso nel 2010, la cui memoria l’Università intende perpetuare anche con successivi incontri, dopo quello odierno e quello dell'aprile 2019.
Il Dott. Nardelli ha inteso documentare le abitudini alimentari del territorio, a partire da quelle più antiche e attraverso vari stadi, epoche, condizioni ambientali che hanno determinato caratteri e fisionomie diverse nel tempo.
Il consumo di cibo quotidiano è stato prima di tutto sempre legato alla fame e finalizzato alla sopravvivenza, per cui il buon mangiare, la buona tavola sono stati del tutto marginali in epoche in cui c'era pochissimo da mangiare ed il digiuno era una scelta obbligata per la quasi totalità della popolazione. (Clicca per continuare a leggere)
La cucina locale è sempre stata fortemente legata al contesto ambientale e produttivo, all’agricoltura, all'allevamento, alla pesca, alla caccia, alla raccolta di frutti spontanei tipici del luogo dove storicamente si è sviluppata.
Molte sono state nel tempo le diversità locali nell’alimentazione della nostra stessa regione in cui le aree interne, montane, preappenniniche sono sempre state svantaggiate rispetto a quelle del lago Trasimeno, ricchissimo di pesci, o alla piana perugina ricca di ortaggi o alle colline orientali della pianura Umbra ricche di olio e vino.
Partendo da queste premesse il dott. Nardelli ha proseguito individuando quei prodotti fondamentali e di base tipici che mancavano nel nostro territorio: castagne, olio di oliva, riso, pollame e, naturalmente, i prodotti delle Americhe, come le patate, il mais, ortaggi come il pomodoro, la melanzana, il peperone.
Si coltivano invece: il grano, l'orzo, l'avena, i "moci" (vagliature ed altri semi di infestanti per il pollame) e le ghiande usate anche nell'alimentazione umana; ortaggi, tra cui predominano le rape, che sostituiscono le future patate; i legumi tra cui i fagioli "bianchi, grigi e quelli "dall'occhio", i "biselli," le lenticchie, ceci bianchi e rossi, cicerchie e fave, tutti di elevato valore energetico e nutrizionale con buon contenuto proteico che supplisce alla carenza di carne. A questi si aggiungono il vino, l'allevamento, soprattutto ovino e, su tutti, il maiale, allevato per la carne, il lardo e lo strutto che sostituisce il burro praticamente sconosciuto. Pochi e da lavoro sono i bovini, diffusi nel tardo Medioevo, il latte invece va tutto per il formaggio.
Pochi sono i pesci e senz'altro non di pregio come la laschetta spinosissima dei fiumi Chiascio e Saonda, a cui si aggiungono le anguille pescate al momento della loro risalita ed i gamberi dei torrentelli di pianura.
E’ diffusa la raccolta delle risorse del sottobosco, quali i tartufi che i contadini cercano seguendo il maiale e vendono per guadagnare qualche spicciolo.
Per rendere meno gravosa la carenza di alimenti si sono sempre inventate proposte alternative che, con le loro differenziazioni gastronomiche, sfumature e varianti, hanno dato origine ad una CUCINA TIPICA LOCALE conservata nella memoria storica collettiva della tradizione e che oggi si cerca di recuperare in opposizione a forme di consumi ormai obbligati ed omologati.
Molti sono i fattori determinanti nella cucina locale tipica quali disponibilità e stagionalità dell’alimento, biodiversità cioè varietà agricole ed animali locali, ritualità di eventi e di vita contadina e produttiva, valori e credenze religiose, “mode alimentari.”
La Cucina tipica è spesso legata alla CUCINA POVERA che certamente non è povera di contenuto e si pone oggi come un obiettivo da raggiungere nell’ alimentazione quotidiana, essendo adeguata in termini calorici e di disponibilità stagionale, completa nutrizionalmente, poco elaborata e capace di non stravolgere completamente il gusto dei prodotti usati.
La tradizione della cucina più povera è quella che si ritrova in qualche maniera nella tradizione della cucina dei conventi, strettamente legata alla stagionalità e alle risorse proprie del territorio, regolata dai numerosi obblighi alimentari imposti dal rispetto dei giorni di magro o digiuno.
Oggi, in un’epoca come la nostra in cui si vogliono recuperare tradizioni locali, cresce il nostro interesse per la CUCINA TIPICA DI GUBBIO, che permane nel nostro territorio con la ricchezza dei suoi alimenti e delle sue ricette, legata ad una tradizione familiare che fortunatamente non si è dispersa.
E così ricordiamo la crescia, il formaggio pecorino, il farro, la zuppa con funghetti, le minestre di legumi, di ceci rossi e bianchi, di cicerchia, di lupini, di lenticchie, di fagioli grigi e quelle con cereali, di riso e cauli (cavoli), d’orzo mondo e di farro, i salumi tra cui anche la mortadella di Gubbio e i sanguinacci, i tartufi.
Tra i dolci soprattutto prodotti da forno come, croccantini, biscottini di cioccolata, biscotti di cannella, caffè, cedrata, le pastarelle delle Monache, non troppo dolci e aromatizzate con anice. I dolci con carattere stagionale, come i “pani” con un po’ di uvetta e resi dolci impastandoli con il mosto o il “pancaciato” con noci e un pizzico di formaggio. Le ricotte condite con zucchero e un pizzico di “polvere di caffè.
Molte sono le zuppe e le torte, come quelle fatte per il pranzo o la cena dei monaci (metà del 1700): minestra di zucca con uova, erba con uova, farro con uova, cipolle con uova, pancotto con uova, zuppa con tartufali (tartufi neri), ceci e cavoli, torta di ricotta, torta d’erbe, carote fritte.
Accanto alle zuppe e minestre che sono il piatto forte quotidiano, non mancano i tagliarini, i bigoli con e senza uova e i maccheroni o maccheroncini, di cui c'è una produzione artigianale, e che vanno impastati con latte, rigorosamente cotti nel brodo e mangiati spolverizzati con formaggio. Vengono dati al termine del periodo di digiuno quaresimale, mangiati come "seconda pietanza" ossia come reintegrativo alimentare o nel carnevale per festeggiare.
Altra caratteristica della cucina popolare, conventuale e nobiliare, è la capacità di riciclare e così nascono quelle che oggi sono specialità tipiche come passatelli, ribollita, pancotto, crostata d'erba, crostini, polpette e polpettoni.