Visita al Museo dei Bersaglieri Villa Filippetti

VISITA AL MUSEO DEI BERSAGLIERI "Colonnello Reggianini"

Mercoledì 11 ottobre 2023  i Soci dell' Università della Terza Età Città di Gubbio si sono recati a San Martino in Colle, frazione di Gubbio, per visitare il Museo dei Bersaglieri "Colonnello Reggianini" allestito presso Villa Filippetti

L'iniziativa fa seguito all'esibizione della Fanfara  Bersaglieri “Colonnello Renzo Reggianini” avvenuta per l'Università lo scorso anno nel Refettorio della Biblioteca Sperelliana ed è stata resa possibile grazie all'invito del Presidente dell’Associazione Bersaglieri Gubbio Ivo Lucci, accompagnato dal Maestro Giordano Palazzari.

I Soci sono stati gentilmente accolti dagli eredi del Colonnello Reggianini, i figli Renzo e Vittoria, che hanno aperto le porte della loro augusta dimora per poterli rendere partecipi delle memorie legate alla figura paterna e alla vita del Corpo Bersaglieri di cui egli era esponente.

L'episodio di cui fu protagonista il Colonnello Reggianini è stato unico nella storia dell' esercito italiano: la scomposizione in tredici pezzi della bandiera di guerra, affinchè non cadesse in mani nemiche. Il fatto avvene a metà settembre del 1943 e la ricomposizione delle parti in cui era stata divisa fu portata a termine nel 1982 con la cerimonia ufficiale di trasferimento al sacrario delle bandiere presso l'Altare della Patria a Roma.

L'esperienza è stata molto coinvolgente per tutti i partecipanti che, attraverso le testimonianze ricche di fotografie, medaglie, lettere, onorificenze, abiti militari e ricordi conservati nel Museo, hanno avuto l'opportunità di conoscere ed apprezzare le gesta del Colonnello Reggianini, debitamente illustrate dal Presidente Ivo Lucci.

Meraviglia e stupore anche per la villa che ospita il Museo, piccolo gioiello settecentesco del territorio eugubino.

L'incontro si è piacevolmente concluso con un aperitivo offerto dall'Associazione Bersaglieri.

STORIA DELLA BANDIERA E DELL'IMPRESA DEL COLONNELLO REGGIANINI

(testo di Pier Vittorio Buffa)

 bersaglieri sono appena scesi dal treno e stanno per entrare nel loro primo campo di concentramento. Un altoparlante, in italiano, ordina di consegnare quello che hanno di militare. Loro non capiscono, non hanno niente che non sia militare, dalle mutande all’elmetto.

«Ma cosa vogliono, che restiamo nudi? ».

Si guardano l’un con l’altro, si formano gruppetti che poi si sciolgono e si ricompongono, insulti e imprecazioni diventano un brontolio che va da una parte all’altra dello spiazzo, come un’onda.

Qualcuno, ha il tono dell’ufficiale anziano, si infila tra un’onda di brontolio e l’altra.

«Ma quali vestiti», urla, «vorranno le baionette e gli elmetti, le cartucce e...».

L’onda riprende il suo moto sommergendo l’ultima parola. E va avanti così per dieci, venti minuti, forse mezz’ora. I soldati tedeschi immobili, ma tesi, con il colpo in canna. I soldati italiani che parlano e si muovono senza fare niente.

Torna la voce dell’altoparlante, le parole sono più scandite, più chiare.

«Consegnate tutto meno i vestiti. Consegnate anche le bandiere».

Quando sente la parola “bandiere” il colonnello Renzo Reggianini, che comanda i bersaglieri, si gira di scatto verso gli ufficiali che gli sono intorno.

«Le armi gliele abbiamo già date, con gli elmetti non ci facciamo niente, ma la bandiera no, non possiamo, dobbiamo bruciarla».

E’ il 21 settembre 1943, tredici giorni dopo l’armistizio, e i bersaglieri del secondo reggimento sono arrivati in Germania, a Wietzendorf, dall’Eubea, la lunga fetta di terra che protegge la Grecia orientale. Un viaggio iniziato l’11 dopo la consegna dei cannoni ai tedeschi e l’arrivo a Salonicco, sicuri di essersi lasciati la guerra alle spalle. Ma il treno inizia a salire lungo l’Europa. Lo guidano militari italiani ma gli scambi e i semafori sono manovrati dai tedeschi: la Jugoslavia, Lubiana,

Vienna. Potrebbe essere ancora la strada per l’Italia, c’è Tarvisio, basterebbe andare verso sud. E fino a quel momento nessuno ha detto ai bersaglieri che sono prigionieri. Hanno le loro pistole, i

loro fucili, le loro mitragliatrici. Nessuno li scorta, nessuno chiude i vagoni dall’esterno, si sentono liberi, sono soldati che hanno finito di combattere e stanno tornando a casa.

Ma il treno va dove non dovrebbe andare, continua verso Nord e si ferma a Norimberga.

Alla stazione i bersaglieri scendono dai vagoni, davanti ai pochi bagni si formano lunghe file, chi ha fretta si accuccia sui binari. I soldati tedeschi passeggiano lungo i marciapiedi.  

(Clicca per continuare a leggere)

Edmondo Brunellini è un tenente di ventisei anni, comanda un plotone dell’ottava compagnia. Quando scende dal treno cerca di stare un po’ solo, per quel poco che è possibile in quella confusione. Un ufficiale della Wehrmacht lo tocca su una spalla e lo saluta con un amichevole «Heil Hitler, ciao». Il ciao suona falso, ma l’ufficiale, un capitano, gli spiega subito che è di Bressanone, perché sua mamma è italiana. Ciao, ripete, e tende la mano. Brunellini la stringe senza guardare negli occhi l’italo-tedesco, vuole star solo, spera che l’incontro finisca subito con uno scambio di saluti. Ma il capitano gli prende il braccio con la punta delle dita, cammina al suo fianco, si scusa per come parla la nostra lingua, anche se la pronuncia è piana e i vocaboli scelti con cura e precisione. E’ un peccato che non siamo più alleati, dice utilizzando più parole del necessario. Brunellini lo guarda dritto negli occhi perché gli sembra un’affermazione minacciosa, ma il capitano gli dà un piccola pacca sulle spalle e lo rassicura dicendo che per gli italiani la guerra è finita, che stanno per tornare in Italia.

«Certo», conclude, «non con le armi». Brunellini interrompe all’istante la piccola passeggiata, si mette di fronte al capitano e gli chiede cosa vuol dire, cosa c’entrano le armi. Il tono dell’italo- tedesco resta cortese ma acquista secchezza. Spiega che non possono continuare a girare per la Germania con moschetti e mitragliatori. Del resto, argomenta, se la guerra è finita, pistole e fucili non servono più.

«Il colonnello sta parlando con il nostro comando, vi dirà di fare così, obbedite, è la cosa migliore». E dopo un altro «Heil Hitler ciao» si allontana con passo tranquillo. Brunellini lo segue con lo sguardo: a una ventina di metri il capitano italo-tedesco si ferma a parlare con un altro bersagliere, un sergente, e cammina al suo fianco nello stesso modo, con le dita a stringere il gomito. Non parla a caso, pensa Brunellini, sta usando il suo italiano per convincerci, devo parlare subito con il colonnello.

Renzo Reggianini ha viaggiato nella prima carrozza e Brunellini lo aveva visto sedersi sulla panchina in fondo al lungo marciapiede della stazione. Cerca di andare velocemente verso quella panchina, ma un reggimento intero sta stretto sul marciapiede di una stazione e devono farsi strada con qualche ordine e qualche spintone.

Sulla panchina, però, non c’è nessuno, o meglio ci si è ammucchiato sopra un gruppetto di bersaglieri che fumano e chiacchierano fitto.

Brunellini chiede del colonnello. I ragazzi nemmeno si voltano. La guerra finita, il lungo viaggio, l’odore di casa... ne hanno abbastanza di disciplina e di scatti sull’attenti. Non che ci si ribelli agli ordini o non si rispettino le gerarchie. Ma con più calma, come fosse sparita la fretta spesso inutile della vita militare.

Brunellini insiste, un bersagliere alza la testa e indica una piccola casa accanto all’edificio principale della stazione.

«E’ la dentro, sono venuti i tedeschi a chiamarlo. è andato via mezz’ora fa». Come ha detto il capitano di Bressanone: il colonnello sta parlando.

In quel preciso istante Brunellini capisce quello che sta accadendo. Non c’è nessun ritorno a casa davanti a loro, ma un campo di prigionia. Stanno per diventare, senza accorgersene, prigionieri di guerra. Fino ad ora i tedeschi sono stati gentili, corretti, rispettosi. Ma solo perché volevano farli arrivare in Germania senza problemi, lasciandogli credere che era una tappa verso l’Italia.


Consegnati i fucili non potranno più far nulla.

Brunellini si guarda intorno per essere sicuro che nessuno lo stia osservando, si accuccia dietro la panchina piena di bersaglieri toglie la pistola dalla fondina e se la infila nella tasca dei pantaloni. Si rialza e torna verso il punto in cui aveva lasciato il capitano di Bressanone, ma non c’è più.

«A rapporto, ufficiali a rapporto dal colonnello, rapporto sul lato ovest».

Nessuno porta quell’ordine, è un passaparola che, in un attimo, attraversa marciapiedi e piazzali. Il lato ovest è quello della panchina e Brunellini, a cui hanno insegnato che agli ordini si obbedisce correndo, fa i primi due balzi verso la panchina sapendo che si dovrà fermare davanti alla calca di bersaglieri. Ma questa volta tutti hanno sentito la chiamata a rapporto e l’ansia di conoscere il proprio futuro lascia spazio agli ufficiali, bisogna perdere il minor tempo possibile. Brunellini si infila nella piccola corsia che si apre davanti a lui ed è tra i primi ad arrivare davanti alla panchina.

C’è il colonnello, ci sono i comandanti di battaglione, qualche tenente, per ultimi arrivano due capitani. Renzo Reggianini conta e riconta gli ufficiali che gli si fanno intorno. Unisce le mani come per trovare concentrazione e inizia dicendo quello che Brunellini sa. Il comando tedesco gli ha chiesto le armi, è la condizione per continuare il viaggio. Lui spiega, ha accettato ottenendo che i suoi bersaglieri non vengano disarmati: saranno loro stessi a consegnare le armi a quelli che erano stati loro alleati e compagni di battaglia.

«Signori, non c’è altro da fare», conclude Reggianini irrigidendosi in un appena accennato attenti.

«Date gli ordini opportuni».

Ma non serve dare ordini. L’onda del passaparola corre velocissima. In un attimo ciascun bersagliere è informato e gli ufficiali trovano compagnie e plotoni dove si discute con parole secche e dure. C’è chi dice siamo prigionieri, chi ribatte no, i tedeschi sono sempre stati nostri amici. C’è chi dice, diamo le armi, così ci mandano a casa, e chi no, se gliele diamo quelli ci ammazzano.

Brunellini e gli altri devono fare il loro dovere e spiegano: non ci disarmano, siamo noi che gli diamo le armi, siamo a casa loro, non possiamo girare armati.

Ad alta voce dicono così, perché l’ordine venga sentito bene, anche dai tedeschi. A bassa voce Brunellini e gli altri ufficiali sussurrano che, se non ce le tolgono loro, mica dobbiamo dargliele tutte le armi. Ciascuno butti qualcosa nel mucchio, ma nascondete più che potete.

Dopo un paio d’ore si svolge dunque un disarmo a metà. Nel mucchio che si forma poco a poco davanti a sei soldati tedeschi armati di mitragliatrice vanno moschetti, pistole, treppiedi, bombe a mano, cartucce, elmetti. Ma nessuno ha mai calcolato quante armi hanno tenuto con sé i bersaglieri del secondo reggimento. È senz’altro rimasta nella tasca di Brunellini la pistola d’ordinanza così come quella di molti suoi colleghi. È stato nascosto anche qualche moschetto e, sicuramente, anche un fucile mitragliatore.


Quando arriva l’ordine di tornare sul treno tra i duemila bersaglieri sono rimasti davvero pochi quelli che credono ancora che li stanno portando a casa. E quando vedono salire sulla locomotiva i ferrovieri tedeschi al posto degli italiani anche gli ultimi che speravano capiscono che ormai sono prigionieri, che la loro destinazione non è l’Italia, ma un campo di prigionia.

Per questo, quando arrivano alla stazione di Wietzendorf e l’altoparlante impartisce l’ordine («consegnate ciò che avete di militare, anche le bandiere») nessuno si sorprende. Ma il colonnello Reggianini, da bravo ufficiale di carriera, non vuole certo finire la sua storia di comandante del Secondo con la consegna della bandiera di guerra a quelli che sono ormai, e senza dubbi, diventati dei nemici.

Quando dice «Bruciamo la bandiera» accanto a lui c’è anche Candiano Filla, il tenente che ha in consegna il tricolore del reggimento. Bruciare la bandiera è una decisione da accademia, l’unica che può prendere un comandante quando non c’è più nessuna possibilità di salvarla.

Pochi mesi prima l’aveva presa, in Russia, il colonnello Mario Carloni, un bersagliere anche lui. Comandava il sesto reggimento e si era trovato, nelle giornate della ritirata, a guidare una colonna, la “colonna Carloni” appunto, nella quale erano confluiti militari di armi e reparti diversi. Combatté con valore, protesse la ritirata di migliaia di sbandati. Al colonnello, la mattina del 20 dicembre 1942, si presenta un caporale del terzo reggimento bersaglieri, il caporale Benzini. Infila la mano sotto il pastrano e dopo qualche secondo ne estrae la bandiera di guerra del suo reggimento.

Racconta che il giorno prima un capitano ha deciso di cercare di salvarla. Ha affidato a lui il drappo, a un sottufficiale il nastro e le medaglie mentre per sé ha tenuto il puntale, più propriamente la “freccia” o “lancia”, l’anima della bandiera, alla cui base è incisa la storia del reggimento.

I carri armati sovietici avanzano in mezzo alla neve, le linee italiane hanno ceduto di schianto ed è un fuggire e cercare di mettersi in salvo nel gelo della notte. Il caporale diventa uno dei tanti militari senza più comandanti e ordini, ma forse è proprio il tricolore che ha arrotolato sul petto, sotto la camicia, a dargli la forza di cercare un colonnello.

Carloni gli crede e prende con sé il drappo del Terzo. Ma alle dieci di sera i russi attaccano ancora, c’è confusione e panico e il colonnello sa che per salvare se stesso e i suoi uomini dovrà rompere l’accerchiamento con la forza. Una prospettiva che mette in pericolo la sicurezza della bandiera. Riunisce gli ufficiali che vede intorno a sé, dice cosa ha intenzione di fare, immerge il drappo in un secchio di benzina e gli dà fuoco assicurandosi «che tutte le parti ne venissero distrutte dalle fiamme». Tornato in patria il colonnello Carloni stilerà un accurato verbale con nome, cognome, grado e reparto delle cinque persone che hanno assistito alla distruzione della bandiera del Terzo.

Forse Reggianini aveva saputo, magari da un ufficiale rientrato da Roma, della decisione presa da Carloni dieci mesi prima. O forse aveva detto «bruciamola» solo perché così sapeva che deve finire una bandiera quando si viene fatti prigionieri. Ma lì, a Wietzendorf, non devono combattere nella notte e in mezzo alla neve, non devono percorrere centinaia di chilometri per sperare nella salvezza. Per loro è come se il tempo si stesse fermando: c’è spazio per pensare. Un ufficiale, di cui la memoria del reggimento non ha tramandato il nome, dice: «Signor colonnello, cerchiamo di salvarla, la bandiera. Siamo tanti, se la facciamo a pezzi e ne prendiamo uno per uno qualcosa riusciremo a portare in Italia. Anche se tornasse a Roma un solo pezzo sarà come se fosse tornata la bandiera intera, se ne dovessero tornare di più li riattaccheremo e la nostra bandiera sarà salva».

Tagliare la bandiera. Forse nessuno, tra chi era quel mattino a Wietzendorf, aveva mai pensato fosse una cosa possibile. Anche per gli ufficiali più giovani e di complemento la bandiera era sacra e intoccabile. Non perché erano nati e cresciuti durante il fascismo, ma perché non c’è esercito al mondo dove non la si pensi così.

Renzo Reggianini non dice di no. «Ho capito, ci voglio pensare», e si allontana da solo. Quando torna sono passati tre, al massimo quattro minuti. «Va bene, ho deciso, facciamo così». Chiama per cognome dodici ufficiali . «Io prendo le medaglie, spezziamo l’asta, tagliamo il drappo in sei e dividiamo i pezzi tra di noi. D’accordo?».

I dodici assentono, chi con un gesto del capo, chi con un secco «Signorsì». Il tenente Filla consegna la bandiera al suo comandante e inizia lo “spezzettamento”. L’asta, con l’aiuto di una baionetta, viene divisa in cinque parti, la freccia viene separata, il drappo viene steso e, sempre con la baionetta, diviso in sei parti regolari: due verdi, due rosse, due bianche con lo stemma sabaudo diviso in due.

Candiano Filla si mette accanto al colonnello con i pezzi della bandiera e Reggianini chiama i dodici uno a uno e consegna a ciascuno una parte della bandiera: Maggiore Spartaco Cionci, la piastrina Capitano Ezio Botti, la lancia. Capitano Franco Fort, parte dell’asta. Tenente Candiano Filla, bianco superiore. Tenente Francesco Santella, parte dell’asta. Tenente Marco Pignatti di Morano, fodero e parte di rosso. Tenente Adriano Avilloni, parte dell’asta e verde. Tenente Edmondo Brunellini, verde. Sottotenente Giuseppe Benignetti, bianco inferiore. Tenente Pietro Jacchia, rosso. Tenente Federico Nappi, parte dell’asta. Sottotenente Filippo Procaccianti, parte dell’asta. 

Non ci sono cerimonie, solo saluti appena accennati e qualche “attenti” circospetto. E la bandiera sparisce sui corpi e nei vestiti dei tredici ufficiali.

«Adesso dobbiamo giurare», dice il colonnello. «Di fare il possibile per salvarla e, una volta tornati a casa, di riconsegnarla a me, se tornerò vivo, o a chi di dovere».

Reggianini allarga le braccia come fosse un celebrante.

«Venite qua».

I dodici gli sono intorno e forse nessuno, in quel momento, pensa alla coincidenza con il numero degli apostoli di Gesù. Si prendono mano per mano, si stringono fino ad abbracciarsi stretti. «Lo giurate voi?». «Lo giuro», dicono quei dodici uomini la cui vita, da quel momento, è legata al pezzo di stoffa o di legno che hanno nascosto su di sé. E’ per questo, forse, che quasi tutti hanno lacrime agli occhi o lo sguardo basso di chi è commosso. O forse perché la breve cerimonia ha fatto capire quanto la loro vita sia in pericolo.

Reggianini lascia passare qualche istante prima di chiamare uno dei dodici ufficiali, probabilmente lo stesso portabandiera Candiano Filla.

«Bisogna fare un appunto preciso su come è stata divisa la bandiera, prenda nomi, cognomi e indirizzi. Accanto ci metta città, via e numero civico».

E mentre i bersaglieri del Secondo stanno consegnando quello che di bellico gli è rimasto addosso il tenente Filla scrive su un foglio del suo taccuino i tredici nomi. Un foglio che è rimasto integro, così come venne scritto quel giorno, con una sola lettera a indicare i pezzi di bandiera: v per Verde, b per Bianco, r per Rosso.

Edmondo Brunellini, appena il colonnello glielo affida, infila in tasca il pezzo di stoffa verde, ma quando si avvicina il momento di passare davanti ai tedeschi per consegnare «quello che ha di militare» ha paura che gli portino via la giacca e, allora, addio bandiera. Si accuccia, chiede a tre bersaglieri di stare fermi intorno a lui, si sfila lo stivale e ci infila dentro la sua bandiera. Non l’ha piegata e, quando cammina, sente la stoffa sulla pianta del piede.

Due giorni dopo l’arrivo a Wietzendorf viene chiamato l’appello degli ufficiali. Inquadrati come reclute vengono riportati alla stazione dove un treno merci è pronto per loro. Viene consegnata una pagnotta ogni due ufficiali e quando sono sui vagoni lo sportello a scorrimento viene chiuso dal di fuori. E così il treno su cui viaggiano gli ufficiali del Secondo diventa uno delle centinaia di treni che in quei giorni attraversano l’Europa con gli uomini trattati come animali da trasportare da un

luogo all’altro: si parte stando in piedi, si rosicchia un po’ di pane, ci si comincia a sedere. Poco a poco ci si ritrova sul pavimento di assi sconnesse senza riuscire a parlare tanto è forte il rumore delle ruote che scorrono sui binari. La sete arriva dopo molte ore, si comincia a tossire, qualcuno si sdraia, chi non riesce più a controllare intestino e vescica lo dice con un rantolo che sparisce sotto le ingiurie dei compagni. L’aria, così, diventa irrespirabile, anche perché solo una volta, di notte, i vagoni vengono aperti e gli ufficiali, con botte e calci di fucile sulla schiena, vengono spinti lungo i binari che diventano gabinetti.

Nessuno sa qual è la destinazione del convoglio. I più attenti capiscono, seguendo i movimenti del sole, che li stanno portando verso oriente, altri hanno visto, quando sono scesi, un fiume ghiacciato. Qualcuno parla di Polonia, il primo paese occupato dai nazisti, quattro anni prima.

E la loro ultima stazione è proprio in Polonia, non lontano da Varsavia. Ancora inquadramento e una lunga marcia per arrivare a Deblin Irena dove un grande castello è stato trasformato in un campo di concentramento. I tedeschi vi hanno costruito sei blocchi di baracche, ciascuno capace di contenere duemila persone, cioè duemila ufficiali italiani. I bersaglieri del Secondo vengono assegnati al quarto blocco.

Fino all’arrivo a Deblin Irena i tredici ufficiali della bandiera sono stati vicini, forse hanno viaggiato anche nello stesso vagone. Comunque ciascuno sapeva esattamente dov’erano gli altri dodici ed era come se la bandiera fosse ancora unita. Ma nel campo non è così, la bandiera si spezza ancora, baracca per baracca. Il Verde che è nello stivale di Brunellini resta, insieme all’altro Verde, arrotolato a un tronco di asta nel tascapane di Adriano Avilloni. Due letti più in là, se letti si possono chiamare le brande fatte di assi di legno, altri due tronchi dell’asta, affidati a Federico Nappi e Francesco Santella. Un pezzo del Bianco, di Giuseppe Benignetti, e un pezzo del Rosso, diietro Jacchia, sono a pochi metri. Appena fuori della baracca l’altro Rosso. Lo ha in consegna, insieme al fodero, Marco Pignatti di Morano, che non ha mai rivelato a nessuno il nascondiglio. In quella baracca, dunque, ci sono sette tredicesimi della bandiera del Secondo.

La prigionia dei bersaglieri comincia come quella di tutti i seicentomila militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre. Bisogna abituarsi all’umido delle casupole di legno, alle cimici che piombano addosso a frotte, ai continui appelli, al cibo povero e disgustoso. E per ciascuno dei tredici della bandiera un’ansia in più: verificare l’efficacia del nascondiglio scelto.

 

Brunellini sente il pezzo di verde sotto il piede destro. Fino al momento di arrivare a Deblin Irena era il posto più sicuro: visto che dovevano marciare non potevano certo togliergli gli stivali. Ma adesso è diverso. Nel campo ci sono centinaia di paia di stivali in buono stato e i tedeschi potrebbero decidere di prenderseli per darli ai loro soldati. Così almeno teme Brunellini e per questo, appena è buio, toglie il Verde dal fondo dello stivale e lo infila nella fodera della bustina.

Dopo due giorni è adunata generale nel grande piazzale sterrato. Un maggiore tedesco detta, in un italiano perfetto, le regole del campo: gli orari, gli obblighi, le punizioni. Con calma, passa in mezzo agli ufficiali schierati come stesse passando in rassegna un reparto per verificare divise e armamento. Ma lì non ci sono armi e le divise sono di militari deportati che hanno viaggiato per migliaia di chilometri. Chi è senza copricapo, chi ha perso una mostrina, chi, e sono tanti, ha tolto la cravatta. Il maggiore indica con lo stick quello che è fuori posto o che manca, e lo fa con un sorriso sbieco stampato sulla faccia che vuol dire solo una cosa: ma che razza di ufficiali siete? Davanti a un capitano che ha il fodero della bustina calato sulle orecchie ha un moto di stizza, batte lo stick sul palmo della mano sinistra e torce le labbra ancora di più.

«Il suo grado?». «Capitano». «E lei, capitano, non si vergogna di stare così?».

Con la mano sinistra gli strappa la bustina dalla testa e la butta per terra, la calpesta.

Per Brunellini è come una staffilata. Se ce le fa togliere a tutti è finita, pensa, con la bustina se ne va anche il Verde. Per fortuna, il maggiore conclude la sua rassegna senza strapparne altre, ma per Brunellini il nascondiglio che aveva scelto è ormai pericoloso, bruciato. Così passa la notte e la giornata successiva a cercare un’alternativa per mettere al sicuro il Verde. Esamina con calma le possibili soluzioni, dal tascapane ai pantaloni, ma nessuna gli sembra abbastanza sicura: sono posti dove, in caso di perquisizione, i tedeschi andrebbero subito a controllare. Per il suo Verde serve un riparo che lo faccia dormire tranquillo e che sia facilmente raggiungibile.

L’idea gli viene la sera quando vede un suo compagno di baracca pisciare accanto alla porta d’ingresso, contro la parete in legno. Lo interroga con lo sguardo.

«Non mi va di arrivare fin laggiù, devo avere febbre, tanto in questo schifo...», risponde.

Non è comunque l’unico a usare quel gabinetto di fortuna: è già caduta la prima neve e lì, per terra, c’è una poltiglia di neve, terra e urina.

Brunellini torna alla sua branda, prende dal tascapane la piccola busta di plastica dove conserva una saponetta, il rasoio e un piccolo spazzolino da denti, la svuota. Toglie il Verde dalla fodera della bustina e lo chiude nella busta di plastica, serra bene la lampo e, quando è quasi buio, torna accanto alla porta. Si guarda intorno per essere sicuro che nessuno stia seguendo la sua operazione, trattiene il fiato per non respirare le esalazioni di urina, si china, infila la mano nel buco e sistema la busta di plastica fuori dalla vista di chiunque, sotto un po’ di terra, bloccata tra due sassi.

Strofinata la mano sul legno della parete per cercare di pulirla, Brunellini torna al suo posto soddisfatto, là dentro nessuno andrà a cercare un pezzo di bandiera. Quando però, dopo mezz’ora, vede un capitano andare verso quel gabinetto improvvisato ha una specie di tuffo al cuore. E se la busta si muove? Se va lì a pisciare così tanta gente che la terra non fa in tempo ad assorbire e si crea un piccolo fiume? Decide così che conterà i clienti di quel piccolo gabinetto e che ogni giorno controllerà la posizione della busta.

n effetti non sono in molti a far pipì sulla bandiera. Di giorno solo un paio di capitani che hanno la febbre. Di notte non più di una decina di persone. Gli altri preferiscono andare nell’apposita baracca dove ci sono cessi e tubi per l’acqua. Ma Brunellini, comunque, non è tranquillo. Là sotto nessuno metterà le mani per cercare qualcosa, ma le probabilità che, dopo qualche giorno, la busta si muova sono alte e lui non vuole rischiare né avere l’ansia di dover spesso controllare la posizione della busta.

Per questo, dopo un po’ di tempo, forse tre o quattro giorni o una settimana, non ricorda bene, decide di cambiare nascondiglio. Di notte toglie la busta di plastica da quel posto puzzolente: è bagnata e sporca di terra e urina, ma è integra, la chiusura lampo ben chiusa, il Verde come l’ha lasciato. Torna verso la branda, per fortuna ha il posto in basso e, piano piano, solleva una tavola del pavimento e ci infila dentro la busta: da lì non può spostarla nessuno, si dice Brunellini.

Per settimane il Verde inferiore della bandiera di guerra del secondo reggimento bersaglieri resterà sotto una tavola di legno di una baracca del quarto blocco di Deblin Irena mentre la vita nel campo scorre come hanno raccontato centinaia di reduci. Il cibo povero e cattivo, i piccoli espedienti per sopravvivere, l’inutile attesa di notizie da casa, gli appelli per arruolarsi nella Repubblica sociale.

Il primo a proporre ai bersaglieri il ritorno a casa in cambio dell’adesione alla Repubblica di Mussolini è un colonnello dell’esercito. Spiega i vantaggi che ne deriveranno: cibo abbondante, addestramento in Germania, rientro in Italia in poche settimane. La tentazione è forte: l’isolamento dal mondo, la fame, la paura per il futuro spingono verso il sì, molti vanno a ritirare l’apposito modulo, ma al ritorno in baracca lo stato d’animo cambia. «Mascalzoni, ci vogliono prendere per fame, ma dobbiamo fargli vedere noi di che pasta sono fatti gli italiani».

La voce arriva dal fondo della baracca, nessuno ha mai saputo con certezza di chi era, e dà il via a un dibattito serrato e nervoso in cui quei ragazzi, sono pochi quelli che hanno più di trent’anni, si giocano il loro futuro: nessuno andrà a consegnare il modulo, nessuno tornerà a combattere per Mussolini e per i tedeschi.

Ma fascisti e nazisti hanno un disperato bisogno di uomini e devono convincere il maggior numero possibile dei seicentomila internati italiani a passare dalla loro parte. Tornano più volte a proporre l’arruolamento e in una di queste occasioni, per dimostrare che le loro promesse sono concrete e vengono mantenute, fanno circolare tra gli internati di Deblin Irena una foto in cui un reparto italiano sfila davanti all’ambasciatore di Salò a Berlino. Sono ben armati, hanno divise nuove, il passo deciso e lo sguardo dritto di chi sembra star bene in salute e sapere cosa vuole. Una foto costruita con cura proprio per trasmettere una sensazione di benessere e sicurezza, per essere capace di convincere ragazzi affamati e abbandonati a se stessi.

I bersaglieri del Secondo se la passano di mano in mano, alcuni la guardano come fosse un miraggio ma restano in silenzio, altri ripetono le frasi che già avevano invaso la baracca dopo la prima proposta di arruolamento. Marco Pignatti di Morano, che i compagni chiamano conte perché viene da una nobile famiglia modenese, riconosce un suo amico. «Ma questo è Filippo», dice indicando a Brunellini la figura dell’ambasciatore a Berlino rigida nel saluto romano. «Filippo chi? ». «Anfuso, Filippo Anfuso, è diventato ambasciatore». «E lo conosci? ». «Se lo conosco? Ha vissuto per anni a casa mia, è un nostro grande amico. E adesso lui è là a Berlino, io qua prigioniero, internato». E non aggiunge altro. Resta solo a guardare la foto più degli altri come volesse cavarne il senso di quello che è successo negli ultimi mesi.

L’ultimo del Secondo a guardare la foto è Giuseppe Benignetti. E’ sottotenente, l’ufficiale più giovane tra i tredici della bandiera, e viene da Tolfa, un paese non lontano da Roma. Sdraiato sulla branda, con la foto in mano, piange in silenzio. Dopo aver riconsegnato la foto, resta così per molte ore. Immobile, gli occhi lucidi, lo sguardo al soffitto. Quando la luce del giorno se ne va i suoi compagni lo sentono parlare da solo ripetendo, più o meno, sempre le stesse parole. «Non ce la faccio, non ce la faccio più... Io scappo... Non ce la faccio non voglio andare con loro, scappo, scappo».

Uno dopo l’altro quelli del reggimento che gli sono più amici gli vanno vicino. Non ci sono parole che possano davvero servire, neanche la minuziosa spiegazione di come sia quasi impossibile fuggire da quel castello. Ma il giorno dopo Benignetti non c’è più. Lo cercano nelle baracche, ai cessi, lo aspettano la sera. Niente. Sparito: lui e il Bianco inferiore della bandiera. Forse, si dicono i suoi compagni, si è fatto aiutare dai polacchi che portano al campo le provviste, si era fermato spesso a parlare con loro di nascosto dalle guardie.

La foto delle prime truppe della Repubblica che sfilano davanti all’ambasciatore di Mussolini è comunque destinata a incidere sul destino anche di altri ufficiali del Secondo.

Dopo qualche giorno, infatti, vengono distribuite le cartoline da spedire a casa per dare notizie alle famiglie. Brunellini ha un’idea.

«Conte», dice a Pignatti, «perché non scrivi al tuo amico, all’ambasciatore Anfuso? Magari ci può aiutare». «Ma come faccio? Non dico a mia mamma che sono vivo? Ci hanno dato una cartolina per uno». «Estraiamo a sorte per decidere chi rinuncia alla propria cartolina, gli altri chiederanno a casa di avvertire i suoi».

E così va. Il conte Pignatti scrive alla sua famiglia e all’ambasciatore. Gli altri chiedono, in fondo alla cartolina, di avvertire la famiglia dell’ufficiale che aveva dovuto rinunciare alla propria. Dopo queste giornate dense di avvenimenti la vita, a Deblin Irena riprende il suo corso monotono. L’unica novità è l’arrivo dell’inverno e del freddo. Al centro della baracca c’è una vecchia stufa di ghisa e per alimentarla, quando il termometro arriva allo zero, i tedeschi hanno portato della legna.

Ma gli italiani la finiscono in pochi giorni perché quell’unica stufa, tenuta accesa tutto il giorno, basta appena a togliere il gelo di dosso. Chiedono di avere altro combustibile, gli dicono che sì, arriverà. Ma dopo qualche giorno senza rifornimenti i bersaglieri capiscono che altra legna da bruciare per il momento non se ne vedrà. Allora fanno l’unica cosa possibile per non ammalarsi e rischiare di morire congelati: usano le assi di legno con cui è costruita la baracca. Cominciano da sotto le brande, una sì e una no, per mantenere salda l’orditura del pavimento e usarne il più possibile. Quando non ce ne saranno più, si dicono, passeranno alle assi con cui sono costruite le brande, tanto per dormire ne bastano tre: testa, sedere e piedi.

Per Brunellini è allarme. E’ vero che potrebbe impedire di far togliere l’asse sotto la quale è nascosto il Verde, ma non vuole che si sappia del suo nascondiglio: nessuno, tra di loro, aveva più parlato dei pezzi di bandiera, solo il giorno dell’arrivo a Deblin Irena si erano scambiati battute rapide su come avevano deciso di difenderli dalle perquisizioni. Poi il silenzio che nessuno aveva deciso ma a cui ci si atteneva rigorosamente.

Il giuramento di Wietzendorf è ancora nelle sue mani e nella sua gola. Nelle mani per la stretta lunga e forte che gli è arrivata dal compagno di destra e che lui ha trasmesso con altrettanto vigore al compagno di sinistra. Nella gola, per le due parole, lo giuro, così diverse dalle stesse pronunciate appena indossata la divisa. Allora gli era sembrato un semplice giurare di affrontare la vita con serietà e onestà. A Wietzendorf era stato un giurare di vivere non per se stesso ma per tutti i bersaglieri del Secondo, vivi e morti. Certo, lui era solo uno dei tredici, la bandiera sarebbe sopravvissuta anche se lui fosse morto e se il suo Verde fosse andato perso, ma non sapevano nulla del loro futuro, nel castello c’era sentore di morte, e sarebbe potuto accadere anche il contrario: solo lui vivo con il Verde inferiore unico lembo della bandiera a tornare nella caserma di Trastevere.

Di notte toglie la busta di plastica da sotto l’asse. E’ sporca di terra, umida, ma il Verde è intatto. Aveva già scucito la fodera della giacca, ci infila dentro la sua bandiera e la ricuce velocemente, con la tecnica da caserma che aveva imparato da anni.

Dopo pochi giorni la metodica distruzione del pavimento arriva alla sua branda e i compagni tolgono proprio l’asse sotto la quale era stata, per settimane, la busta con il Verde.

Il sentore di morte, a Deblin Irena, Brunellini lo avverte la mattina, quando l’avvio della giornata è scandito dalle frasi in tedesco delle guardie. Eppure, una volta, era una lingua amica, sentirla in mezzo alle raffiche di mitragliatore e alle urla dei feriti dava sollievo. Adesso non più. E non sa se sono loro, i tedeschi, che hanno cambiato tono e modi, o se è lui che li vede come aguzzini duri e implacabili. Oppure, ed è più probabile, il sentore di morte è una miscela di tutto questo resa sempre più pericolosa e instabile da freddo, fame, paura.

Una mattina il sentore di morte diventa la visione di una fine vicina e ineluttabile. Nella baracca arriva un colonnello delle SS. E’ duro e impettito, parla italiano in modo pietroso. «Ho qui un elenco, prego i signori ufficiali chiamati di fare un passo avanti».


Il primo della lista è un sottotenente dei carabinieri seguito da un capitano degli alpini, un tenente di artiglieria, un altro tenente. Arriva ai bersaglieri: «Tenente Pignatti... tenente Nappi». Tra un nome e l’altro l’SS lascia secondi che si riempiono di un brusio aspro e drammatico. «Marco, Marco che cazzo vogliono? che succede?». «Porca puttana, qua ci ammazzano». «Federico tieni duro tieni duro». L’elenco continua. «Tenente Brunellini... tenente Santella». In pochi minuti i sei ufficiali del Secondo che sono nella baracca hanno fatto un passo avanti. Quando l’elenco è finito il colonnello delle SS ha davanti a sé ventisei italiani che lo guardano fisso per cercare di capire il loro destino. E ci sono sei pezzi della bandiera del Secondo. «Vi porto i saluti dell’ambasciatore Anfuso, domani partirete. Heil Hitler». L’urlo di gioia è immediato e corale. «Ci siamo riusciti, la cartolina, è stata la cartolina, bravo Marco, bravo, si torna a casa, a casa». Come se avessero da preparare i bagagli per una lunga vacanza corrono alle brande per sistemare le loro cose. Ma ci vuole un attimo a riempire i tascapane del poco che c’è, così il resto della giornata scivola via a parlare della fortuna che è arrivata con la foto della sfilata davanti all’ambasciatore. «Se Benignetti avesse avuto pazienza, oggi sarebbe qui con noi, a festeggiare. Speriamo che ce la faccia anche lui, speriamo».

Il colonnello delle SS torna la mattina dopo e, per i ventisei ufficiali, inizia l’inaspettato viaggio verso casa che ha come prima tappa il lager di Przemysl. Una tappa che si potrebbe definire “tecnica”, cioè di avvicinamento e disinfestazione. E che diventa, per Brunellini, il momento in cui si è sentito più lontano dal Verde. Perché disinfestazione vuol dire restare nudi e vedere i propri vestiti portati via e fatti passare insieme a decine di altri quasi identici nell’autoclave. Che fine farà la giacca con il Verde? Come farà a riconoscerla nel mucchio?

Al ritiro dei vestiti per il lavaggio c’è un ufficiale russo prigioniero, di grado alto, forse un generale. Brunellini usa espressioni del viso e parole universali. Indica la giacca, dice mamma, congiunge le mani in preghiera. Il generale russo dice “da”, prende dalla tasca un filo rosso e lo annoda all’occhiello della giubba di Brunellini. Sarà solo grazie a quella macchiolina rossa che ritroverà la sua giacca con il Verde ben chiuso nella fodera.

Dopo qualche giorno i ventisei partono finalmente per l’Italia. Un viaggio lento, ma più sicuro, meno faticoso e umiliante di quello di andata: in quarantottore i reduci di Deblin Irena sono al di qua del Brennero e sei tredicesimi della bandiera del Secondo sono per il momento in salvo.

Trovano un’Italia divisa in due, con la guerra ovunque. Sanno che non sarà facile evitare di tornare a combattere e tornare a casa. Ma alla stazione di Verona, la città dove sei mesi prima sono stati fucilati Galeazzo Ciano e gli altri gerarchi che avevano votato contro Mussolini, c’è ad aspettarli un colonnello degli alpini. Uno dei ventisei, il sottotenente dei carabinieri che era stato il primo della lista, esce dal gruppo e gli corre incontro, si abbracciano a lungo. Sono padre e figlio che si rivedono dopo due anni e quel colonnello è il comandante della piazza militare. È la svolta definitiva. Il colonnello aiuta tutti, mette in contatto Brunellini con la prefettura. Una macchina, ogni giorno, va verso sud, per avviare la posta verso Roma e sulla Balilla postale Brunellini arriva fino a Pesaro da dove degli amici lo accompagnano a Morrovalle, il paese in cui gli hanno detto che la sua famiglia è sfollata.

Per il tenente Edmondo Brunellini la guerra è finita. Chiude in un pacco la giacca con il Verde cucito nella fodera e dice di non toccarla, non lavarla, lasciarla dove lui l’ha messa. E aspetta. Appena lo spostamento del fronte verso Nord glielo consente comincia a costruire il proprio futuro di professore di educazione fisica e a cercare i compagni di guerra e di prigionia. Dei dodici della bandiera aveva gli indirizzi, perché l’elenco steso da Candiano Filla se lo erano scambiato affinché ciascuno potesse copiarlo.

Ed è proprio per Filla, che vive a Gorizia, la prima lettera. Era l’alfiere e quindi per Brunellini è la cosa più naturale. Ma non riceve una risposta diretta, solo una lettera del distretto militare di Udine, da cui dipende Gorizia, che chiede di inviare a loro, al distretto, il Verde. Brunellini si irrita, la bandiera è una cosa di loro tredici, non di un distretto militare.

Allora decide di rivolgersi al suo ultimo comandante di battaglione, il maggiore Spartaco Cionci, uno dei tredici della bandiera. Siamo all’inizio del 1946 e, per la prima volta dal suo ritorno dalla Polonia, Brunellini ha qualche notizia sulle sorti della bandiera.

Cionci gli scrive che la riconsegna dei pezzi avverrà con un’apposita cerimonia, che bisognerà provvedere alla loro ricomposizione e che si rivolgeva a lui «a nome del colonnello Reggianini che aspetta di giorno in giorno la riunione delle varie parti per avvertirvi della data della cerimonia che sarebbe dovuta avvenire alla presenza di Sua Altezza Reale il principe ereditario». E’ il 13 gennaio 1946 e il maggiore non fa nessun cenno alla fine che hanno fatto le altri parti della bandiera del Secondo.

Brunellini vuole compiere il più rapidamente la sua parte, per onorare il giuramento di Wietzendorf. Tramite un cognato in partenza per Roma fa avere il suo Verde inferiore al maggiore che, con la data del 2 marzo 1946, gli scrive un biglietto: «Ricevo dal tenente Brunellini Edmondo il drappo della bandiera del 2° reggimento bersaglieri, con immenso affetto, Spartaco Cionci».

Brunellini ricorda con precisione il momento in cui il cognato gli ha consegnato il biglietto del suo vecchio comandante di battaglione. Fece un grande respiro, come un atleta dopo uno sforzo intenso, e si chiuse da solo nel bagno. Lacrime non ne ricorda, ma la difficoltà di parlare sì. Nel bagno, seduto sul bordo della vasca, restò fino quando sparì la luce del giorno. Dei tredici ufficiali del giuramento di Wietzendorf solo Giuseppe Benignetti, il sottotenente sparito a Deblin Irena che aveva il Bianco inferiore, non ce l’ha fatta. E’ morto nella primavera del 1944 a sei chilometri da casa, su una corriera di sfollati colpita dai colpi di mitraglia di un aereo alleato. Nessuno ha mai saputo come abbia fatto a fuggire da Deblin Irena e arrivare a Roma. Brunellini, insieme a Francesco Santella e Federico Nappi, è stato a Tolfa, a casa del padre, per sapere com’era andata e per raccontargli del figlio al reggimento. Alla fine, con gli occhi bassi, uno di loro riuscì a dire: «Chissà se quando è stato sepolto aveva con sé il lembo bianco della bandiera che gli aveva dato il colonnello». Il padre capì a cosa stavano pensando. «Lasciatelo in pace almeno adesso».  

La cerimonia davanti a “Sua Altezza Reale il principe ereditario” non si è mai tenuta e la bandiera è stata ricomposta solo nel 1979.

Il 30 settembre di quell’anno c’è un importante appuntamento a Legnano. Nella caserma del II° battaglione Governolo (che aveva raccolto l’eredità del secondo reggimento) è convocato il raduno dei bersaglieri del Secondo. Ci sono anche sei ufficiali che giurarono a Wietzendorf a cui un generale dona la foto della bandiera del Secondo ricomposta. Manca solo il Bianco di Benignetti e due tronchi dell’asta che, quello stesso giorno, consegnano Francesco Santella e Federico Nappi.

Il 4 febbraio 1982 si compie l’ultimo atto di questa storia. La bandiera del Secondo torna a esistere. Ricucita, con la sua asta, le sue medaglie e la sua lancia, è impugnata da Edmondo Brunellini che, solennemente, la consegna al comandante del Governolo. È un drappello di giovani bersaglieri, subito dopo, a scortarla dalla caserma di Trastevere, da cui era partita per la Grecia il 5 novembre del 1940, all’Altare della Patria, al Sacrario del Vittoriano dove è conservata. L’unico rammarico dell’ultimo alfiere del Secondo è il Bianco inferiore. Nel ricomporre la bandiera non hanno lasciato il vuoto, ma lo hanno sostituito con un pezzo di stoffa nuovo, come se la bandiera fosse tornata intera, come se Benignetti non fosse morto prima di arrivare a casa.

Dice adesso Edmondo Brunellini, unico superstite, nel 2005, dei tredici di Wietzendorf: «Penso di aver fatto solo il mio dovere di uomo e di soldato. In Grecia venne colpito un ragazzo del mio plotone. Non ne ricordo il nome, di mestiere faceva il saltimbanco. Chiedeva aiuto, gli misi una mano sulla pancia insanguinata e affondai nei suoi intestini. È morto guardandomi negli occhi. Dopo di lui se ne sono andati tanti altri ragazzi che combattevano con me, ma i suoi occhi non li ho mai dimenticati. Ecco, il pezzo di stoffa verde l’ho portato indietro per il saltimbanco e per gli altri morti dopo di lui».

LA VILLA

Immersa nel verde della campagna eugubina, Villa Filippetti è una dimora storica settecentesca.

L’esterno, in pietra, è semplice e presenta una scala d’ingresso accogliente ed elegante. La prima stanza che riceve l’ospite è un vestibolo semicircolare che immette in un ampio ambiente caratterizzato da grottesche alle pareti, porte e finestre (così in tutta la casa); in alto, al centro del soffitto campeggia lo stemma di famiglia e alle pareti le storie del Vecchio e Nuovo Testamento. Da qui si accede alla stanza dedicata alla famiglia del colonnello Reggianini e alle sue imprese eroiche durante la seconda guerra mondiale nel corpo dei Bersaglieri. Fotografie, medaglie, lettere, onorificenze, abiti militari e ricordi conservati a testimonianza dell’importante legame che unisce il passato con i discendenti della famiglia Reggianini attualmente proprietari della struttura.

Alle pareti fanno bella figura quattro tele del Settecento che rappresentano, in ampi spazi naturali, i giochi dei bambini dell’epoca. Si procede verso la sala da pranzo con mobili importanti, raccolte di oggetti antichi proveniente da altri Paesi, vasi e fotografie. Alle pareti altre tele del Settecento con vedute di Roma a partire dal Pantheon, Trinità dei Monti, Piazza San Pietro e Piazza Navona.

Si entra infine nello splendido salone di rappresentanza molto accogliente, completamente affrescato, arredato con salotti particolari e un bellissimo pianoforte a coda. Alle pareti opere di grande respiro con vedute di marine, forse un pensiero rivolto al mare così lontano dal luogo.

A piano terra di Villa Filippetti si trova una piccola cappella consacrata con altare e arredi sacri che rispecchiano il gusto dell’epoca.

Clicca sulle foto per sfogliare la gallery

Clicca sulle foto per sfogliare la gallery